Storia e leggende

Le Giudicarie vantano un passato storico-culturale di millenni come altre zone del Trentino e dell’Italia. Ma nessuno nel corso dei secoli lo ha mai raccontano per intero e gli storici sono riusciti a restituircene soltanto alcuni frammenti. I castelli, le Chiese, le vecchie case, i reperti archeologici testimoniano le trasformazioni avvenute nella storia delle Giudicarie. Un fascino particolare conservano per tutti noi le leggende e i fatti del passato che i narratori di storie ci hanno tramandato fino ad oggi. Soprattutto nell’Ottocento, ai tempi del poeta Giovanni Prati, vigeva la consuetudine fra la gente di raccontarsi tali vicende. Non può stupire pertanto se anche nella nostra valle era diffusa la stregoneria, la magia e le credenze più o meno fantasiose. Storie che venivano raccontate dai nostri antenati di un centinaio di anni fa nei famosi “ filò “ delle lunghe serate invernali, trascorse al tepore delle stalle e che allietavano e rallegravano le genti dei nostri paesi. Mentre le donne molto operose filavano la canapa, lino o stoppa, gli uomini dopo aver acceso la pipa, fra una boccata e l’altra, raccontavano con molta serietà storie più o meno fiorite, di “streghe e diavoli” che affascinavano i presenti, i quali usciti da questi incontri le riferivano ad altri suscitando anche in essi interesse e legittima curiosità.

Una di queste leggende si riferiva alle “ STREGHE DI PIDOS “..........

...........“ Quando alla fine di un furioso temporale estivo il sole proiettava sui prati di Lundo e il Monte Casale l’Arcobaleno, per molti erano ancora le Streghe di Pidòs, che sedute al sole sul Dòs Pidòs, si spazzolavano i lunghi capelli con pettini d’argento, i cui riflessi multicolore illuminavano il pendio del monte e l’oscuro antro della “Giàna”, l’ampia caverna situata alta nella roccia della Val Lomasone. “

........altra credenza si riferiva al “Bus de l’aria”, situato nelle vicinanze del Dòs di Pidòs. Piccolo buco nella roccia, ben visibile tuttora, da cui esce dell’aria gelida. Probabilmente questo fenomeno naturale è causato da cunicoli sotterranei di chissà quale lunghezza e grandezza con probabili altri sbocchi verso l’esterno. Nell’antichità era oggetto di leggende più o meno strane e bizzarre; come ad esempio l’immaginazione che quest’aria gelida fosse opera delle stesse streghe. Da qui “el fià dela Strìa”.

Tanto per rimanere in tema, un’altra curiosa leggenda che si raccontava nei tempi lontani era legata al “ Prà dei muci “ sul Monte Casale. Località cosiddetta per i singolari cumuli di terra ai quali venne legata la leggenda della Madonna dell’Assunta di Dasindo. Il detto popolare narra che un montanaro non volle scendere dalla montagna per la festa dell’Assunta e stette lassù ad abbarcare il fieno in vari mucchi. Durante la notte questi mucchi di fieno si tramutarono in mucchi di terra....

 

La Storia

IL PAESAGGIO SACRO - Il rapporto tra “paesaggio sacro” e società contadina è tutt'uno. Esso comprende l’universo delle manifestazioni collettive esterne, gli intrecci tra collettività, la trama delle processioni , dei pellegrinaggi, dei “legati” e delle “carità” inerenti la distribuzione periodica di pane, vino, sale, olio. Tutti fattori che fanno parte integrante della cultura contadina locale e che si sono riflessi sul paesaggio naturale incidendolo con molteplici forme.

Le chiesi campestri (Cesòte) sono il più vistoso perché monumentale, elemento superstite dell’elaborazione sacrale del paesaggio. Alcune, seppur modeste nella struttura architettonica, racchiudono al loro interno delle decorazioni artistiche di notevole pregio. Basti pensare agli affreschi quattrocenteschi di Cristoforo Baschenis de Averara (vedi S. Felice di Bono). O alla chiesetta di San Silvestro di Vigo al cui inerno ci sono delle opere di artista ignoto ma pare della corrente bascheniana.

Altri elementi che caratterizzano il paesaggio sacro sono i capitelli ( Caputèi), sparsi un po' ovunque, alcuni di pregevole fattura. Nonchè le croci (cros) e le lapidi.

Il paesaggio ne riceve forza e movimento. Le strade, i campi, i boschi conservano il segno religioso della piccola storia valligiana.

A differenza delle chiese però, le croci e le lapidi sono purtroppo, segni storici dimenticati o abbandonati. Ma nel passato erano le mete delle “orbite” processionali, il sigillo di un fiducioso ricorso alla divinità di fronte alle ire della natura o delle guerre; l’invito alla sosta meditativa sul luogo di una morte sulla strada. Simboli dell’eterno rapporto di conflittualità dell’uomo con la natura. Ne deriva un riscatto, spiritualizzato del paesaggio; allo stesso tempo un’impronta della vicenda umana sulla trama ambientale secondo il ruotare delle stagioni, del tempo e degli uomini.

Molte sono le croci e i capitelli eretti nel corso dei secoli nella nostra valle. Diverse anche nel Lomaso e tra queste quella del “dos Pidòs”, detta “CROS DEL DÒS DE LE STRÌE”.

L’anno in cui essa venne posta sulla sommità del “Dòs pidòs” era il 1646. La data è chiaramente leggibile tuttora sul cippo in pietra che le fa da basamento. Il motivo per cui fu eretta è sconosciuto, ma si può ben facilmente interpretare. Il ricorso al divino per placare la furia della natura o l’arma dei cristiani per allontanare le streghe e i diavoli. Si conosce la storia del novecento di cui si dice che negli anni della prima Guerra Mondiale 1915-1918 i “Daoni”, sfollati della Val di Daone e vissuti a Dasindo per un certo periodo, bruciarono i resti della croce antica. Il terribile freddo e la scarsezza di legna da ardere, fu il motivo principale. A quel tempo la Val LomasonE non era così ricca di boschi come ai nostri giorni, ma era un rigoglioso prato verde dove venivano portate le bestie al pascolo e dove veniva falciato il fieno, indispensabile per la sopravvivenza degli animali nei lunghi inverni.

Lo stesso “Dos di Pidòs” era completamente spoglio dalle piante, e dalla sua sommità si poteva scrutare l’orizzonte di tutta la Valle.

Nel 1943 su lascito del vecchio Guardia boschi di Dasindo, Giuseppe Aloisi soprannominato “Bepi Bertòn”, fu eretta l’ultima croce in legno, i cui resti sono rimasti fino ad oggi. La costruzione della croce fu eseguita da Filippi Abramo, detto “ Brameto Grando” di Dasindo, falegname

I TEMPI DELLE PROCESSIONI : le processioni, dai tempi antichi, rappresentavano l’immagine simbolica e dinamica del paesaggio contadino. Anche le “carità” e i “legati” per messe rappresentavano il paesaggio contadino e in un certo senso spiritualizzavano il territorio in quanto erano sempre più frequenti i testatori che vincolavano campi, case e soldi per la celebrazioni di messe a suffragio della loro anima.

Gli itinerari sacri delle processioni si svolgevano dentro e fuori i villaggi. Contemperavano pure le lunghe distanze, un giorno e più giorni. Il portatore di croce apriva il corteo. Seguivano i gonfaloni e i cantori. L’ordine dei confaloni era stabilito dall’autorità religiosa ma le competizioni di gruppo o di villaggio non mancavano. Le processioni della sera del Venerdì Santo erano condite con movenze da sacra rappresentazione. Sacre rappresentazioni con la recita e il canto di laudi, colorivano anticamente di significato allegorico-didascalico le manifestazioni esterne della Confraternita dei disciplini di Vigo Lomaso. Nel censimento delle processioni disposto nel 1786 dall’Ordinariato Vescovile di Trento, appaiono in fase di decadimento. Per risollevarne le sorti, i disciplini inventarono la processione del “Nome di Maria”, definita “ ben lunga e solenne”. Vi si portava la statua dell’Addolorata e durante il tragitto si raccoglieva l’elemosina.

Le tre processioni antiche si svolgevano invece, “con poco concorso”: quella dell’Ascensione raggiungeva la chiesa di San Silvestro, ed era privilegiata da qualche “carità di pane”. Le altre due avevano per meta la chiesa di S. Maria di Dasindo, nel giorno dell’Assunta, e la chiesa dei frati “riformati” di Campo Lomaso, nel giorno di S. Anna.

Solenne e affollata era la processione che la prima doemnica dopo il Carmine organizzava la confraternita omonima. Vi si portava la statua della Madonna. I partecipanti lucravano l’indulgenza.

Oltre alle processioni delle confraternite, alle processioni usuali previste dal “rituale romano”e a quelle straordinarie, c’erano nel Lomaso le QUATTRO PROCESSIONI DELLA COMUNITA’ GENERALE.

LA PRIMA , DELLA TRINITA’, RAGGIUNGEVA LA CROCE DEL “DOSS DI PIDOS” E PROSEGUIVA PER LA CHIESA DI DASINDO DOVE VENIVA CELEBRATA LA MESSA.

La seconda , il primo maggio, la Chiesa della Croce sopra Godenzo (“Chiesa de santa Cros”) e a Comano si celebrava la messa.

La terza, il 3 maggio, la croce delle Cornéle con la celebrazione della messa a Cavrasto.

La quarta, da San Vigilio, a Curé con celebrazione della messa a Campo.

Avvertiva il parroco G. Paolo Tabarelli de Fatis: queste processioni “vengono fatte con vergognosa scarsezza di Popolo, a riserva del luogo, ove si celebra la messa”.

Anche nel Bleggio e nel Banale si visitavano processionalmente le croci sparse sul territorio.

Evidente era il significato di richiesta dell’intercessione divina sul raccolto, i beni e le cose.

Le riforme religiose, oltre che politico-amministrativo, introdotte dall’Imperatrice d’Austria Maria Teresa verso il 1770, furono all’origine della scomparsa di alcune tradizioni cristiane come le processioni e di alcuni luoghi di culto come chiese, santuari e conventi.

Recentemente la croce del Dos Pidòs era ormai entrata nel dimenticatoio; vecchia e fatiscente giaceva a terra sommersa dalle piante e dalle sterpaglie. La volontà e lo stimolo di voler recuperare e valorizzare le vecchie tradizioni di un tempo, ha animato un gruppo di giovani del posto e ha fatto si che si attuasse il ripristino della croce. La nuova croce è stata posta il 1 giugno del 1999 dagli stessi giovani ed è stata costruita da Mattei Alessandro di Campo Lomaso. A quasi un anno di distanza dalla posa in opera è stata ricordata e valorizzata dalla popolazione di Dasindo con una Via Crucis il giorno del Mercoledì Santo, partendo dalla Croce del paese. Le quattordici stazioni della Via Crucis terminarono ai piedi della croce del Dòs Pidòs. In quell’occasione è stata benedetta da Don Marco Alessandrini al termine della funzione.

(Gli appunti storici sono stati rilevati dal volume: “ Le Giudicarie Esteriori -Bleggio, Lomaso, Banale” edito dal C.E.I.S.)

SCRITTO di MONS. LORENZO DALPONTE

 

“ El Dos de le Strie" in Valle Lomasone - Dasindo

“ Strìa “ deriva dal latino “striga”, in italiano “strega”, che nelle opinioni popolari del Medioevo si riteneva fosse una donna maligna che aveva promesso la sua anima al diavolo in cambio di straordinari poteri in vita, usati nel creare danni alla gente.

Si credeva che le streghe procurassero del male nei modi più inverosimili e scatenassero volentieri tempeste e grandinate sulle culture contadine. Abitavano nei fondivalle e nelle grotte delle montagne, sapevano trasformarsi in animali, gatti, cani, serpenti, volpi. Erano in grado di volare a cavallo di una scopa o di un bastone e rubavano bambini per cibarsene con i demoni nelle notti di orgia. Con l’oscurità entravano anche negli abitati e nelle case, dove le stanze si costruivano a livelli diversi, perché questi esseri malefici vi si incianppasero e cadessero.

Solo la Croce di Cristo Salvatore poteva fermare il loro cammino.

Gli antichi abitanti della comunità Lomasina immaginavano che “ El Bus dela Giana “, posto in alto sopra la Valle Lomasone, sulla parete ovest del Monte Casale e più precisamente del Monte Blestone, fosse l’abitazione della regina delle streghe.

Eressero pertanto una grande Croce di legno su uno dei dossi all’uscita dalla valle, come fecero pure gli abitanti dell’alto Bleggio all’uscita della Val Marcia.

Lo chiamarono “ EL DOSS DE LE STRIE “: fin lì potevano arrivare diavoli e streghe, ma non oltre.

Alla vigilia del terzo millennio i giovanotti di Dasindo hanno sostituito con una nuova croce quella vecchia e fatiscente. Non per timore degli spiriti maligni della Val Lomasone o per rievocare le superstizioni degli antichi abitanti, poveri e impotenti nei malanni della vita, ma per ricordare la loro fede. La Croce, per il Cristiano, è strumento di salvezza, è l’albero della vita.

La sua presenza non è solo memoria, è religione sempre viva e benefica.

Trento, Novembre 1999. Dalponte Mons. Lorenzo


“El Bus de la Giana”

E’ un antro ampio e profondo come una casa, posto sul fianco Ovest del Monte blestone.E’ antichissimo. Noto a tutti gli abitanti del Lomaso, anche ai più piccoli, è stato esplorato però solo da qualche coraggioso con doti alpinistiche, in quanto il suo accesso è situato proprio sulla parete di roccia sottostante il Monte San Martino e alto una quarantina di metri dal limite del bosco. Il toponimo risale molto probabilmente al tempo della dominazione di Roma, quando si fermarono in valle i primi colonizzatori romani. Essi portarono con le loro divinità anche il culto di Diana, la Dea della caccia, dei boschi e delle sorgenti. Diana è la forma più antica per Djana e Jana, con la “J” consonantica, che per legge fonetica si sarebbe trasformata in “G” perdendo la “D” iniziale, così come avvenne con “djurnalis” che diventò “giornale”. “BUS” deriva dal latino “buca” e “ bucus”, con il significato di apertura o antro.

La Valle del Lomasone, così ricca di acque, di sorgenti e di foreste, dovette sembrare ai Legionari Romani il regno ideale di questa “Dea” e immaginarono la sua dimora nel misterioso antro. Da qui la denominazione tramandata nei secoli “DEL BUS DE LA GIANA” o anche “BUS DELA VECIA GIANA” per sottolineare l’antichissima derivazione di questo antro naturale.

Altre brevi leggende ..............:

“La fontana della Madonna”- una labile tradizione popolare, oggi dimenticata, della presunta apparizione della madonna, rese nel passato , luogo di cauta venerazione una sorgente tra i massi di frana presso la palude del Lomason detta appunto la “ fontana della Madonna” .

Sembra che su di un masso ci sia l’impronta di una mano che si dice sia stata appoggiatavi dalla Madonna nella sua apparizione.

altri cenni ...................

Le Calchère della Val Lomasone : le fornaci per la calce, dette appunto in dialetto giudicariese “calchère” erano molto integrate nella cultura locale e ogni villaggio o gruppo di villaggi aveva le sue fornaci. Private o collettive erano un indispensabile elemento per l’edilizia e l’agricoltura e un materiale sostentamento alla povera economia locale.In un territorio esclusivamente a struttura geologica sedimentaria come il nostro, l’attività della cottura delle pietre di calcare, da cui si ricavava la calce era molto diffusa, sia perchè serviva ad un uso locale sia perchè era oggetto di commercio con altre zone e regioni limitrofe.

Le calchère erano grandi consumatrici di legna da fuoco. Perciò esigevano la presenza di un bosco capace di alimentarle e di garantirne la continuità per far si che la cottura della pietra avvenisse in modo perfetto. Nella valle Lomasone si possono distinguere ancora oggi i resti delle numerose calchère che qui esistettero.

E’ evidente che le comunità erano attente a possibili sconfinamenti sui boschi altrui.

Accadde, ad esempio, che nel 1699 gli abitanti del Lomaso sorprendessero genti di Calvòla a fare “una cotta” nella calchèra nei pressi del Monte S.Pietro, sotto il M. Misone (località "coste longhe") in territorio rivendicato dai Lomasini.La discussione che ne seguì sembra sia stata molto vivace.

Si concluse con un compromesso: Tenno cedette la fornace alla comunità del Lomaso e pretese che le sue ragioni fossero salve.

Altro aneddoto risale al 1700: cinque uomini di Calvòla e di Canale, comunità di Tenno, furono condannati ad una multa di 39 troni da versare alla comunità del Lomaso perchè avevano fatto una calchèra alle Coste longhe su territorio Lomasino.

I permessi politici per l’apertura di fornaci per calce erano concessi dalla prima metà dell’ottocento dal Giudizio di Stenico. Prima delle riforme bavaresi e austriache le fornaci erano regolate dalle comunità.

Il bosco dovette subire dall’insistente presenza delle fornaci ad un repentino disboscamento, che solo in questi ultimi decenni è riuscito a rimarginare.

Carbonère :anche le carbonère ( produttrici di carbone da riscaldamento) hanno impresso il loro segno nel bosco, e anche nella nostra zona, ricca di bosco erano assai diffuse.

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